La forza della carità cristiana
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 20 marzo 2020
In questo tempo di coronavirus si è aperto un acceso dibattito fra pastori, teologi e fedeli
sull'alternativa tra chiese aperte o chiese chiuse, partecipazione alla messa o digiuno eucaristico.
Non manca qualche intervento polemico, intollerante verso il parere degli altri e addirittura
sarcastico, ma meglio non tenerne conto. In particolare, ciò è avvenuto dopo che Francesco ha
richiamato tutta la chiesa a non disertare ma a esercitare una carità compassionevole e creativa
verso i malati, i morenti e verso le persone anziane, sole e fragili. Il Papa ha avuto anche l'audacia
di dire ad alta voce che «le misure drastiche non sempre sono buone». Non per mancare della virtù
della prudenza, ma per risvegliare l'intelligenza della carità e per indicare ai cristiani che,
soprattutto in ore cattive come queste dell'epidemia, occorre vivere il comandamento dell'amore del
prossimo.
Quanto alla celebrazione della liturgia eucaristica, nessuna posizione miracolistica né di arrogante
certezza e tantomeno di intransigentismo cattolico. Non siamo più in epoche nelle quali la peste era
sentita come un giusto castigo di Dio per le infedeltà degli umani, né pensiamo che vi siano recinti
o realtà sacre esenti dall'essere portatrici di contagio, e non siamo neanche inclini ad affermare il
legalismo del precetto. Dunque, si devono certamente evitare celebrazioni liturgiche con
assembramenti di gente e, al riguardo, occorre rispettare le precauzioni prescritte dall'autorità civile.
I miei dubbi non riguardano queste dovute osservanze ma piuttosto le poco meditate modalità con
cui si offrono surrogati come le messe private, quelle solitarie, quelle trasmesse attraverso le più
svariate forme che il web offre. Per la chiesa cattolica, infatti, il sacramento non è mai virtuale, ma
va vissuto nella sua realtà, e l'eucaristia va vissuta come cena del Signore celebrata da una
comunità. L'eucaristia è un evento in cui insieme si mangia e si beve, cioè si assimila, il corpo del
Signore, dopo aver insieme ascoltato la Parola, diventando così il corpo ecclesiale di Cristo. Se è
vero che non c'è chiesa senza eucaristia, è altrettanto vero che non c'è eucaristia senza chiesa. Come
ha detto con semplicità ma acutezza il vescovo di Milano, «altro è mangiare il pane, altro è
guardarlo in una fotografia». I malati e i morenti hanno bisogno del corpo di Cristo, devono poter
lasciare questa terra nella speranza della vita eterna e con i segni di una carità che non viene meno. I
fedeli hanno il diritto di essere nutriti dai sacramenti e di poter morire con quei conforti che la
chiesa ha sempre loro proposto come salvifici. Se si sta per un certo tempo senza eucaristia, occorre
avere consapevolezza di questa privazione, di un digiuno che non può essere alleviato da surrogati.
C'è sempre la preghiera, in particolare c'è la lettura della Scrittura che contiene la parola di Dio, ma
la mancata partecipazione all'eucaristia deve essere sentita dai cristiani come una prova che li pone
in attesa di poterla celebrare di nuovo, quale viatico necessario nel cammino verso il Regno. Certo,
un monaco lo sa bene, San Benedetto come tanti eremiti del deserto, visse per anni senza eucaristia
e senza celebrare la Pasqua, ma i bisogni della fede dei credenti sono diversi, appunto "secondo il
grado della fede di ciascuno", direbbe l'apostolo Paolo.
È significativo che questa urgenza da me invocata fin dall'inizio della crisi sia stata manifestata da
un vescovo come Mariano Crociata, da presbiteri come padre Sorge e don Massimo Naro, da un
teologo come Ruggieri, da laici come Riccardi, Stefani, Melloni, Faggioli, Cardini e da tanti altri.
Più che mai in questi giorni emerge la testimonianza di pastori che amano la loro comunità e per
essa svolgono il loro servizio con abnegazione e con la gratuità del Vangelo. Ed è significativo che
tra i morti vi siano anche tanti presbiteri, come nella diocesi di Bergamo: pastori in mezzo al loro
gregge. «In casi di malattia grave, la presenza del sacerdote diventa un balsamo importante» ha
scritto il vescovo di Gozo. In questa direzione si orientano anche gli opportuni suggerimenti per la
celebrazione dei sacramenti in tempo di emergenza Covid-19 indicati dalla Segreteria generale della
Cei, suggerimenti veramente ispirati dal Vangelo e da una intelligente sollecitudine pastorale. Né
chiese chiuse, né assembramenti ecclesiali o liturgici, ma un operare sempre secondo i sentimenti di
Cristo Gesù, senza che nell'economia sacramentale, siano privilegiati alcuni ed esclusi altri.
L'appello del Papa è stato dunque un mettere in guardia tutta la chiesa dalla sonnolenza spirituale,
dall'appiattimento della sua disciplina su quella dell'autorità politica e, a mio parere, da una
debolezza della fede che diventa tentazione per tutti noi quando la strada si fa difficile, oscura, nel
deserto della sofferenza e della prova. Tenere le chiese aperte significa non chiudere le porte a chi,
osservando le precauzioni, vuole entrare in esse a pregare, a trovare conforto nella fede, ma
significa anche invitare a intercedere davanti a Dio e a stare vicini a tutti quelli che sono vittime
dell'epidemia in modi diversi.
In sintesi, in una situazione temporanea di grave emergenza e pericolo di vita la comunità cristiana
si trova nelle condizioni di non potersi riunire per celebrare l'eucaristia. I credenti nutrono la loro
fede pregando la liturgia delle ore, nell'ascolto della parola di Dio contenuta nelle Scritture e nella
lectio divina, in una forma di digiuno eucaristico. Tuttavia, come indicano le normative pubblicate
dalla Cei, in condizioni di necessità e infermità non possono essere negati a nessuno i sacramenti
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